Lluís Miñarro riscrive il mito evangelico di Salomè. E lo scaraventa nel cuore del deserto iracheno, in un incubo di sole e polvere che consegna allo sguardo i macabri rituali di Abu Ghraib. Il valenciano Luis García Berlanga, nel 1952, sbeffeggiava Truman nei pressi di Villar del Río (¡Bienvenido, Mr. Marshall!). Miñarro, da buon catalano, è ancora più estremo nella sua smania di astrattismo: la bandiera a stelle e strisce viene eclissata fuoricampo, nel limbo delle allusioni, e l’amarezza del j’accuse deflagra in un fecondo magnetismo visivo, nella più ficcante perentorietà discorsiva. Perché Love me not è cinema in versi aguzzi, taglienti come cocci di bottiglia, che all’occorrenza sanno farsi ballata suadente, sinfonia di eros e thanatos, umido baccanale dei sensi. I corpi: uniche presenze «reali», non fantasmatiche, in un mondo di interessi esangui, devastato dalle feroci ambiguità del capitale (in quanto conclamata patria della democrazia, gli Stati Uniti sono ambasciatori di libertà o di sopraffazione?). Corpi che denunciano sempre un rovescio della medaglia, un risvolto ignoto che tarda a palesarsi. Corpi che stentano a concedersi, schiacciati dalla tentacolare peccaminosità dello sguardo (ma quando si concedono…).

In Love me not c’è il mito declinato secondo molteplici varianti: i Vangeli e Oscar Wilde, Carmelo Bene e Ken Russell, Alla Nazimova e Rita Hayworth, Pasolini e le «lucciole». Ma soprattutto la memoria affettiva del cinema americano: il western, il dramma bellico (con pallidi echi di American Sniper, uno dei film più straordinari degli ultimi anni), il melodramma fiammeggiante. L’epilogo è un omaggio a Douglas Sirk, via Emilio Fernández e João Pedro Rodrigues. Un monumento a femmes fatales, freaks e uomini alla deriva (possibilmente demoliti dall’alcool), in cui gli archetipi di amore e nostalgia vengono liquidati con un colpo di scena categorico, ghignante, degno di un Buñuel postmoderno e perverso. Cinema dell’utopia, che suggerisce la possibilità di un mondo senza frontiere (né territoriali né idiomatiche); utopia del cinema, che avanza un’alternativa radicale alla mendace nitidezza dell’alta definizione.

Implacabile ostaggio di narrazioni edificanti, leggasi partitiche (retorica nazionalista in primis), e slogan «inclusivi», leggasi neo-puritani e neo-oscurantisti, impantanato da tempo immemorabile nelle paludi del consenso, il cinema catalano degli anni Dieci rintraccia in Miñarro uno dei suoi rarissimi, radiosi poeti dinamitardi.

Sei appena uscito dalla sala di montaggio. Ti ritieni soddisfatto del film?

Assolutamente sì. Ho rifinito alcuni dettagli in questi ultimi giorni. Alla fine ho raggiunto l’equilibrio – o forse lo squilibrio – desiderato. È un film libero, molto personale, che non piacerà a tutti.

Come «Stella cadente»: un film per molti ma non per tutti.

Esatto!

Dove verrà presentato?

L’anteprima, teoricamente, avrà luogo in un festival. Il problema è che i festival sono sempre più avvolti in se stessi, arroccati in un inquietante conservatorismo. Alcuni programmatori, ad esempio, hanno rilevato in Love me not un eccesso di «sovversione» e di – udite, udite! – «creatività». Mi pare allarmante che molti operatori culturali del 2018 incentivino le proposte più rassicuranti, anche sotto il profilo dell’inventiva. Viviamo in un’epoca che premia più che mai l’autocensura, il moralismo di facciata. Per quanto possa sembrare paradossale, un film come Love me not, che non offre una visione univoca del mondo, che vuole scavare nel non-detto, può venire accolto con diffidenza anche nel circuito dei festival.

La dittatura del politicamente corretto: «mala tempora currunt sed peiora parantur».

Qualche sera fa, su un canale spagnolo, parlavano della scomparsa di Bernardo Bertolucci. La cosa surreale era che dei suoi film non si faceva quasi menzione. Ad alimentare il dibattito era unicamente l’aneddoto relativo alla presunta «violenza» esercitata su Maria Schneider nella sequenza chiave di Ultimo tango a Parigi.

Il tuo cinema sfugge puntualmente alle morse della prevedibilità, anche dal punto di vista produttivo. «Love me not» è una coproduzione messicano-catalana girata in gran parte dall’altro lato dell’Atlantico, a Città del Messico e nel deserto di Chihuahua. Immagino che la ricerca dei finanziamenti non sia stata facile…

Il percorso produttivo è stato particolarmente accidentato: tre anni di ricerche, incontri, tentativi andati a vuoto. Avrei potuto girare il film nel deserto di Almería, ma il Ministerio de Cultura di Madrid ha bocciato il progetto per ben tre volte consecutive. Ho fatto fronte alla produzione con alcuni capitali personali e un aiuto – ottenuto peraltro con estrema fatica – della Generalitat de Catalunya e di Televisió de Catalunya. Grazie a un produttore messicano, Julio Chavezmontes, e al fondo Eficine, ho potuto portare a termine il progetto nel deserto di Chihuahua, coadiuvato da una stupenda troupe ispano-messicana. L’industria del cinema messicano sta vivendo anni particolarmente intensi. Senza l’iniziativa di Chavezmontes e il contributo di Eficine, non mi sarebbe stato possibile realizzare questo film.

Com’è nata l’idea di calare il mito di Salomè nell’Iraq occupato dall’esercito americano?

L’idea è nata dalla volontà di scandagliare l’ambiguità latente del mito biblico. Nel rifiuto che Giovanni Battista rivolge a Salomè potevano celarsi innumerevoli sottotracce. Io mi sono limitato a esplorarne una. La mia interpretazione è implicita tanto nel testo di Oscar Wilde quanto nelle illustrazioni di Beardsley. A questo proposito, credo anche di essere in debito con il Buñuel di Simón del desierto. Poi, certo, mi interessava la possibilità di indagare gli spazi di Abu Ghraib, che a differenza dei campi di concentramento nazisti erano stati smantellati senza lasciare traccia. Un orrore sottratto allo sguardo, e quindi alla memoria.

«Love me not» tratta questioni concrete, importanti, senza scadere nello slogan, nella sociologia spicciola (specialità, quest’ultima, di molto cinema contemporaneo). Nella sua dirompente eccentricità, mi sembra un film tanto lucido quanto disarmante. Il genere torna ad essere, come negli anni d’oro del cinema classico (e anche dopo), veicolo privilegiato per l’espressione del dissenso?

Più che un western ho fatto un eastern, dal momento che l’ho ambientato in Medio Oriente (ride). Sì, sono d’accordo. I miei film vivono di tutto ciò che ho visto e amato. Mi piace giocare con i generi cinematografici (Love me not è dedicato alla memoria di Douglas Sirk, n.d.r.), ma anche con molte altre reminiscenze artistiche. All’inizio del film c’è un’inquadratura che isola al suo interno una doccia, una poltrona azzurra, un tappeto, un battipanni e una sedia bianca. L’allusione, assolutamente indiretta, è a un quadro di Giorgio De Chirico appartenente alla serie Mobili nella valle, nel quale, però, al posto della doccia c’è un armadio. Non posso fare a meno di costruire un’immagine senza investire nelle sue pieghe gli ardori, le tensioni, le ossessioni che mi hanno accompagnato per tutta la vita. Salomè mi parla anche di Caravaggio, di Gustav Klimt, di Richard Strauss, di Carmelo Bene. La bellezza rappresenta forse la nostra unica via di fuga. L’unica speranza rimasta.